Ma dov’è finito il progetto per il Ponte, il vero protagonista di questa nostra storia? Come si è evoluto dall’ipotesi del Gruppo Stretto di Messina S.p.A. – campata unica sospesa di 3.300 metri – acquisita nel 1981 dalla società concessionaria Stretto di Messina SpA, con marginali modifiche nel 2003? Non è un dettaglio, dato che quello fu uno dei progetti di massima più cari al mondo, costato alla collettività migliaia di miliardi di vecchie lire.
Il mistero verrà svelato nelle righe che seguono, con effetti speciali, insetti giganti, alcuni colpi di scena e un deus ex-machina che, pare, non arriverà.
[per chi è appena arrivato e si è perso oltre metà della storia: è meglio cominciare dall’inizio, con il Primo Atto (ecco il link)]
ATTO III
La storia dei ponti di grande luce, che si è svolta principalmente nel corso del 1900, è piuttosto affascinante. Per il progetto del Ponte sullo Stretto, fin dal concorso del 1969, come si è visto in precedenza, c’è sempre stata la consapevolezza di progettare un’opera unica, un ponte dalla lunghezza fino ad allora mai raggiunta. E si è già detto come questo carattere dell’unicità – dovuto alla specificità del sito e all’estensione trasversale del “salto” sullo Stretto – si sia presto banalizzato in un’opera che sembrava quasi l’ingrandimento fotografico di altri ponti già costruiti altrove.
Tant’è che il progetto, rispetto alle vicende storiche e politiche che si sono susseguite all’ombra di questo colosso, è andato decisamente in secondo piano. Poco più che un preliminare, esso fu acquisito – come si è visto – fin dalla sua costituzione nel 1981 dalla concessionaria Stretto di Messina S.p.A. La quale si era ben guardata dall’approfondire la propria – costosissima quanto mai troppo fondata – ipotesi di massima, rimandando opportunamente i progetti definitivo ed esecutivo, con la relativa responsabilità tecnica, al futuro appaltatore, la cordata Eurolink guidata da Impregilo.
Ma quali sono i motivi per cui il progetto preliminare, che ha costituito la base per l’appalto ad Eurolink, non convince del tutto?
Amache al vento
Per comprendere concretamente i limiti della soluzione a ponte sospeso ad impalcato sottile rispetto alle sollecitazioni trasversali – limiti tutt’altro che teorici – è piuttosto utile rivedere le immagini spettacolari del collasso, nel 1940, di uno dei ponti di questo tipo più avanzati per l’epoca, messo in crisi da “un soffio di vento”: il Tacoma Bridge sul canale Tacoma Narrows, Stato di Washington (USA).
I lavori per il Tacoma Bridge (ponte sospeso stradale a due corsie, uno dei più grandi dell’epoca, 853 m di campata centrale, 1524 metri di lunghezza complessiva per 12 di larghezza) iniziarono il 23 novembre 1938 e la struttura fu aperta al traffico il 1 luglio 1940, prima di crollare il 7 novembre dello stesso anno.
Intorno alle 10 del mattino del 7 novembre 1940 iniziò la torsione alternata nel tempo della campata centrale del ponte, che inevitabilmente collassò un’ora e dieci minuti dopo. Le immagini del disastro furono riprese da un docente di ingegneria che stava studiando i movimenti della struttura, già preoccupanti in fase di costruzione qualche mese prima.
La concezione strutturale del ponte di Tacoma si basava sull’ipotesi che il sostegno dei carichi dovesse essere affidato ai cavi e che la travata, flessibile e leggera, avrebbe dovuto solo assorbire le deformazioni dell’impalcato stesso. In pratica non venivano poste limitazioni alla deformabilità del ponte, difatti: il rapporto tra l’altezza della sezione trasversale dell’impalcato (h=2.4 m) e la luce massima del ponte (L=853 m), la cosiddetta snellezza longitudinale (h/L), era molto piccola pari a 1/355; l’analoga snellezza laterale (b/L), rapporto tra la larghezza della sezione trasversale dell’impalcato (b=11.9 m) e la luce massima del ponte (L=853 m) altrettanto piccola pari a 1/72, valori assolutamente proibitivi.
In sintesi: il ponte era troppo deformabile a flessione e a torsione e per lo più molto leggero, di conseguenza era molto sensibile all’azione del vento, anche se era stato progettato correttamente dal punto di vista statico, non si era tenuto conto degli effetti (aero)dinamici.
Non è difficile capire fisicamente perché campate deboli in torsione siano soggette a movimenti torsionali. Poiché il vento non è mai perfettamente orizzontale, esso può iniziare a colpire l’impalcato, per esempio, dal basso, sollevando leggermente il lato sopravvento e abbassando il lato sottovento (fig. 7.6a). L’impalcato reagisce a questa deformazione ruotando all’indietro, abbassando il lato sopravvento e alzando il lato sottovento. Ora il vento colpisce l’impalcato dal di sopra, spinge in basso il lato sopravvento e alza il lato sottovento (fig. 7.6b). La struttura reagisce torcendosi all’indietro, ricominciando così il ciclo, e le oscillazioni crescono progressivamente in ampiezza fino alla rottura. Queste non sono oscillazioni risonanti, poiché un vento costante non ha un periodo e quindi non può essere in risonanza con le oscillazioni torsionali dell’impalcato.
Quello ben descritto da Martufi (che riprende l’ottimo testo di Matthys Levy e Mario Salvadori, Perché gli edifici cadono”, Bompiani 1997) è denominato tecnicamente ‘flutter‘, un fenomeno aeroelastico che si innesca nelle strutture sottili/alari snelle esposte ad una sollecitazione trasversale costante (vento), in cui le caratteristiche del flusso trasversale di fluido (aria nel nostro caso) vengono completamente modificate dal moto della struttura (in un ponte, la roto-traslazione della sezione nella parte mediana della campata) causato dal flusso d’aria: la deformazione determina l’insorgere di moti nel fluido sollecitante, e nel contempo con la deformazione viene modificata l’esposizione della struttura al flusso. In questo modo si innesca una oscillazione aeroelastica che si definisce “autoeccitata”, cioè facilitata ed amplificata dalla stessa instabilità aeroelastica che caratterizzava la struttura. L’instabilità aeroelastica non ha nulla a che vedere con la risonanza (che si ha quando la frequenza della forza eccitante è pari ad una delle frequenze proprie del sistema oscillante: possiamo verificare questo fenomeno imprimendo una spinta ad un’altalena al momento opportuno), tanto più che non esistono in natura raffiche di vento perfettamente periodiche nel tempo. In quel giorno del 1940, una volta che il processo aeroelastico di flutter – in assenza di raffiche – si innescò, attivato da un vento costante ben al di sotto del limite per cui il Tacoma Bridge era stato progettato, il crollo fu inevitabile qualche ora dopo.

– Il ponte sospeso sullo Storebelt (Denmark, immagine sopra, completato nel 1998), con luce mediana di 1.624 metri e impalcato “aerodinamicamente trasparente”, risolto con un cassone a sezione alare, molto efficiente contro le raffiche trasversali.

– Il ponte Akashi Kaikyo (Japan, immagine sopra, anch’esso del 1998), con luce mediana di 1.990m e struttura ad impalcato reticolare ad elevatissima rigidezza.
I giapponesi con il loro ponte, che presentava un salto di 300 metri in più rispetto a quello danese, proposero una soluzione che segnava il ritorno al modello dei ponti «rigidi» perché, dopo una serie di lunghe ed approfondite prove su almeno un centinaio di sezioni differenti, realizzate in un’avanzatissima galleria del vento con una larghezza di 45 metri (normalmente si usano gallerie larghe 4-5 metri), si erano accorti che la sezione «aerodinamicamente trasparente» non andava bene per una luce di quasi 2.000 metri. E decisero di adottare una sezione «scatolare», più rigida, anche se questo avrebbe aumentato pesi e costi. [L’Unità, 28 giugno 2002]
Si può dire che, dal punto di vista della teoria e della tecnica costruttiva per i ponti di grande luce, con l’ISALB ’92 si è assistito ad una sorta di biforcazione dei criteri-guida per la progettazione. Per evitare i problemi del Tacoma, e creare ponti di grande luce dalla stabilità comprovata, da un lato assistiamo alla riduzione delle azioni sfavorevoli alla struttura – con l’adozione di profili aerodinamici capaci di ridurre le sollecitazioni trasversali dovute al vento (scuola “danese”, efficienza aerodinamica, Storebelt Bridge); dall’altro all’incremento della resistenza della sezione di impalcato (scuola “giapponese”, massimizzazione della rigidezza, Akashi Kaikyō Bridge).
Ma al simposio di Copenhagen c’era anche un’altro ospite illustre: venne presentato con grande risalto accademico il progetto per il Ponte sullo Stretto (nell’immagine in basso, è quello a sinistra, quì confrontato dimensionalmente con il Golden Gate Bridge di San Francisco, che affiancato al primo sembra un ponte sul Naviglio).

Tutto il resto, alla luce di quanto osservato e dal momento che non esistono nuove, dimostrate teorie che hanno nel frattempo meglio avvalorato l’ipotesi della Stretto di Messina S.p.A., rischia di essere vuoto dibattito accademico.
Il Think Tank
Mettiamo in chiaro un aspetto: chi curò il progetto preliminare del Ponte sullo Stretto non è assolutamente uno sprovveduto, anzi. Nonostante le numerose critiche da parte di esperti di fama internazionale, l’enorme giro di denaro intorno all’opera del Ponte sullo Stretto ha portato dalla parte degli ottimisti che si sono attivamente occupati del progetto preliminare altrettanti progettisti ed esperti di indubbia professionalità. Infatti, fin dal 1981 la Stretto di Messina SpA diede incarichi ad oltre 100 professori universitari ed ingegneri, 12 istituti scientifici ed universitari nazionali ed esteri, 39 società ed associazioni nazionali ed internazionali.
Questo enorme lavoro di ricerca teorica e sperimentale, nonché di progettazione, approdò nel 2002 all’attuale progetto preliminare che fu messo quindi in appalto. Esso porta la firma dell’ingegnere inglese William Brown, già progettista della Freeman Fox & Partners dal 1956 al 1985, e fondatore della Brown Beech & Associati, esperto di grandi ponti sospesi.
Le analisi statiche, le ricerche teoriche e sperimentali, le progettazioni generali e di dettaglio, furono condotte dai seguenti professori italiani: il Prof. Leo Finzi del Politecnico di Milano, il Prof. Fabio Brancaleoni dell’Università di Roma, il Prof. Stefano Caramelli dell’Università di Pisa e il Prof. Piero D’Asdia dell’Università di Trieste.
La dinamica della struttura per quanto riguarda le azioni del vento fu investigata dal Prof. Giorgio Diana del Politecnico di Milano. Il Prof. Luca Sanpaolesi dell’Università di Pisa si occupò delle verifiche “a fatica” e relative sperimentazioni. Lo studio del tipo di calcestruzzo da impiegare nella costruzione fu compiuto del Prof. Mario Collepardi dell’Università di Ancona.
Delle fondazioni del ponte si occuparono i Prof. Michele Jamiolkowski del Politecnico di Torino e il Prof. Ezio Faccioli del Politecnico di Milano. Gli studi geologici furono affidati al Prof. Enzo Boschi dell’Università di Bologna e al Prof. Icilio Finetti dell’Università di Trieste. Le analisi sismiche furono di competenza del Prof. Alberto Castellani e del Prof. Giuseppe Grandori, entrambi del Politecnico di Milano. Fu richiesto inoltre uno studio sulle probabilità di rischio e sull’affidabilità del progetto al Prof. Daniele Veneziano del Massachusetts Institute of Technology.
Il progetto preliminare fu approvato da tutti gli Enti competenti (ANAS, Ferrovie dello Stato, Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, CIPE) anche con l’ausilio di Consulenti esteri. L’ultimo comitato tecnico-scientifico che approvò il progetto fu presieduto dal Prof. Remo Calzona [che incontreremo di nuovo in seguito, NdA] dell’Università di Roma (fonte: Wikipedia)
Quindi: tutto venne organizzato in grande stile, per fare in modo che ci fossero molti argomenti a favore della linea teorica ormai intrapresa fin dai tempi del Gruppo Ponte di Messina, di cui si è parlato nel primo atto di questa sommaria ricostruzione storica. Secondo alcuni osservatori, però, questo sprawl di incarichi ad ampio spettro ha avuto come rovescio della medaglia un troppo scarso controllo e cordinamento dell’approccio globale: ogni ente, ogni Università, ogni associazione, ogni studio di progettazione coinvolto ha lavorato in maniera fin troppo autonoma, senza un reale collegamento con gli altri soggetti coinvolti in questa delicatissima fase. Il difetto principale dell’approccio tecnico adottato per il Ponte è stato proprio questo, una squadra composta da molti solisti, ciascuno occupato su uno specifico, singolo problema e senza una visione d’insieme, con premesse “congelate” preparate da altri in un altro periodo storico e in base a criteri del tutto estranei alla disciplina delle grandi strutture.
Sono alto, sono snello
Si può dire che la storia tecnica dei ponti abbia seguìto una sua linea evolutiva, che tiene conto dell’arditezza strutturale identificabile nel rapporto tra l’altezza della sezione e la lunghezza libera d’inflessione della campata. Il Tacoma Bridge sfoggiava una snellezza pari a 1/355, ben al di sopra della media delle strutture coeve. Il suo crollo ha rappresentato un incidente di percorso, ma ha anche insegnato molto agli strutturisti, che in seguito si sono ben veduti dall’avvicinarsi ai rapporti geometrici-limite di cui il ponte dello stato di Washington faceva vanto all’epoca della sua costruzione.

La figura sopra rappresenta il grafico dei valori della snellezza nella storia dei ponti moderni, dall’Ottocento ai nostri giorni. Lo descrive il prof. Federico Mazzolani nella sua relazione “Problemi strutturali relativi al Ponte di Messina“, tenuta in occasione del convegno “Il ponte sullo Stretto” organizzato il 28 ottobre 2004 presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università Federico II di Napoli:
Si può osservare che, a partire dalla seconda metà dell’800 e fino agli inizi del XX secolo, i valori della snellezza rimangono pressoché costanti (con h/L sempre inferiore a 1/100). Successivamente il brusco decrescere delle curve segnala un rapido aumento della snellezza, con soluzioni sempre più ardite ed avanzate, fino ad arrivare a perdere il controllo del processo evolutivo, che ha toccato il fondo con il drammatico crollo del Tacoma [la linea evolutiva si spezza, NdA]. Da allora i progettisti hanno dovuto rivedere le loro posizioni e conseguentemente la curva dei rapporti h/L è risalita più in alto fino al punto corrispondente al secondo ponte Tacoma. Confrontando le esperienze americane, europee e giapponesi, si può in generale riscontrare che: nel Nord America la snellezza del Tracoma bridge (h/L = 1/355) ha rappresentato un punto limite di non ritorno che non è stato mai più superato, facendo tesoro dell’esperienza negativa del passato; in Giappone non è mai stata superata una snellezza corrispondente a h/L = 1/250 ed è importante ricordare che il ponte più lungo del mondo (Akashi-Kaikyo) ha una snellezza molto bassa corrispondente a h/L pari a circa 1/150; l’Europa si è sempre dimostrata più coraggiosa, raggiungendo nel suo ponte più lungo sullo Store Bealt una snellezza corrispondente ad un rapporto h/L circa pari a 1/350.
A questo punto, Mazzolani si pone qualche domanda:
In questo quadro, come si deve giudicare la snellezza proposta per il ponte sullo stretto di Messina con un rapporto h/L pari a 1/1320, che addirittura non è rappresentabile nel grafico tanto è completamente fuori misura rispetto a quanto fino ad oggi realizzato nel campo dei ponti di grande luce? Un miracolo della tecnica oppure una pura follia?
Come si può non rimanere stupefatti confrontando l’altezza dell’impalcato proposto, che è composto da tre cassoni separati aventi un’altezza pari a circa 2,60 m, con l’altezza di ben 14 m circa dell’impalcato a schema reticolare dell’Akashi Kaikyo bridge? […] Quante perplessità insorgono se si pensa che l’attuale ponte più lungo del mondo, pur avendo una luce pari a meno di 2/3 rispetto allo stretto di Messina, ha un impalcato con un’altezza pari ad un edificio di cinque piani? […]
Arriva quindi a qualche conclusione:
L’attraversamento stradale e ferroviario dello Stretto di Messina, con la soluzione ufficiale che risale al 2003, prevede un ponte sospeso di 3300 m di luce con una snellezza di 1/1320 m. Se collochiamo il progetto del nuovo ponte rispetto allo schema evolutivo dei precedenti ponti stradali, rispettando la data ufficialmente prevista per il completamento (2011-2012), notiamo che rispetto all’Akashi Kaikyo bisogna impennare la curva evolutiva fino a farla diventare quasi a tangente verticale con andamento iperbolico (vedi tratto tratteggiato nello schema), non giustificato dal presente sviluppo della tecnologia. Un’evoluzione normale potrebbe corrispondere al proseguimento della retta con la stessa pendenza, consentendoci di arrivare a questa luce solo intorno agli anni 2050. E’ comunque doveroso riconoscere che quello che vi ho appena mostrato è sbagliato, perché stiamo operando sulla curva dei ponti stradali. Noi dobbiamo invece far riferimento ai ponti ferroviari, che – come già osservato – hanno problemi particolari, legati principalmente alla necessità di dover conciliare l’estrema deformabilità trasversale con la rigidità delle rotaie. Basta pensare all’innesto fra la parte fissa e la parte mobile, che crea una serie di problemi allo stato attuale non ancora risolti.
Il gigante coi piedi di argilla/1
Nel 2005 un altro grande strutturista scomparso solo qualche settimana fa, il grande Antonio Maria Michetti (all’inizio della sua carriera, dal 1955 al 1961, assistente di Pier Luigi Nervi e fino a poco fa stimatissimo docente alla Sapienza di Roma), esprimeva insieme con Andrea Cinuzzi le sue perplessità su quest’opera, nel saggio “I dubbi sul ponte” pubblicato nel n.5 de L’Architetto Italiano di quell’anno (Mancosu Editore). Riportiamo una sintesi pubblicata su L’Unità del 13 febbraio 2005: “Il colosso dello Stretto, progetto faraonico con le gambe d’argilla”.
Il saggio, basandosi soprattutto sulle obiezioni sollevate dagli enti competenti, le integra e le chiosa con un attento esame, punto per punto, del progetto di massima non trascurando di verificare persino i calcoli.
Torri e impalcato. Le due torri sono costituite da due «gambe» collegate da quattro elementi trasversali, alti ciascuno circa 17 metri e larghi quattro, che intelaiano la struttura. Di per sè non dovrebbero presentare particolari difficoltà costruttive, ma il punto debole è rappresentato dalle condizioni di esercizio: carichi, sollecitazioni (azione del vento e tensioni trasmesse dai cavi a cui è appeso il ponte) e soprattutto il rapporto con l’impalcato, cioè il ponte vero e proprio, una «strada» lunga 3.300 metri, larga oltre 60 metri, con 6 corsie stradali, 2 corsie di servizio, e due binari ferroviari. L’impalcato è costituito da una serie di cassoni formati da tre elementi in acciaio che dovranno essere saldati in opera, cioé durante il montaggio. Ma la saldatura e il controllo della sua tenuta nel tempo «date le esigue altezze a disposizione, non è assolutamente effettuabile» E poi i tratti dell’impalcato presentano non pochi problemi, soprattutto nei punti in cui si appaggiano alle torri, a causa dei giunti di dilatazione che prevedono anche notevoli escursioni (cioè spostamenti) e a causa delle diverse tolleranze ammissibili dalla sede stradale e da quella ferroviaria (deformazioni rilevanti non sono tollerabili dai binari su cui scorrono i treni). Ecco perché sia l’Anas che la commisione Fs di allora, espressero i dubbi più forti sulla realizzabilità del ponte.
Cavi, fili e cassoni. I ponti «sospesi», come questo, sono formati da due enormi funi che vanno da una torre all’altra e da funi più piccole (i pendini) che scendono verticalmente e sostengono l’impalcato. Anche qui i punti deboli e le incertezze non mancano: dalle difficoltà di posa in opera, alle tensioni critiche che si verificano nelle «selle», i punti di aggancio alle torri. Ma i due autori del saggio pubblicato su L’architetto italiano vanno oltre e, dopo una puntuale verifica delle dimensioni e dei coefficienti di sicurezza previsti nel progetto, esprimono forti dubbi sulla loro adeguatezza. Così come sulla possibilità di riuscire a montare i cassoni dell’impalcato: moduli grandi come un edificio industriale monopiano del peso di 880 tonnellate da trasportare «con apposite chiatte, al momento attuale inimagginabili, in mare aperto sotto i cavi, innalzati per circa 70 metri e attaccati a dei pendini, a loro volta attaccati alle funi sovrastanti… sperando che non tiri vento».
Vento e non solo. Già il vento. E la pioggia, e le temperature. Ci si mettono pure loro a fare i «disfattisti». Però contro la natura, come si dice, non si va o almeno si cerca di proteggersi. Solo che nel caso del ponte, protezioni e precauzioni, ancora una volta appaiono inadeguate o trascurate. Mettendo da parte i non trascurabili problemi sismici e geologici (spostamenti in direzioni opposte della faglia tra Scilla e Cariddi), e parlando delle condizioni atmosferiche le cose si complicano davvero. Perché il soffiare di forti venti in quella zona, unito alla pioggia e alle notevoli escursioni termiche potrebbero rendere critiche le condizioni di attraversamento del ponte (come del resto avviene su qualsiasi ponte o viadotto autostradale, ma di dimensioni molto minori). E in particolari giornate (da statistiche meteorologiche ne sono prevedibili una trentina all’anno) rendere obbligata la chiusura del ponte e il ripristino massiccio del servizio di traghetti che, a ponte realizzato, sarà sicuramente smantellato in buona parte.
Acqua e umidità, si sa, arrivano dappertutto, figuriamoci in mezzo al mare. Così, soprattutto negli elementi scatolari dei cassoni e dei giunti debbono essere eliminati i punti di possibile infiltrazione di acqua. Via dunque le bullonature e avanti le saldature. Però, all’interno dei cassoni dell’impalcato, così come nei conci che formano le torri, l’umidità e la condensa si formano lo stesso. Niente paura, assicurano i progettisti, basta inserire al loro interno degli impianti di deumidificazione. E se si guastano? Non è come sostituire un «t’asciugo delonghi» che si è scassato nel nostro bagno, anche perché non si può certo aprire uno di quei cassoni come fosse una scatola di sardine. Ancora i progettisti assicurano che in ogni cassone, come in tanti altri punti critici del ponte, sono previsti sensori e sistemi di monitoraggio che controllano i parametri di sicurezza e segnalano le anomalie.
Il gigante coi piedi di argilla/2
Ma i problemi non sono finiti. Mentre molti sforzi vengono profusi da parte della società concessionaria per dimostrare la bontà delle proprie scelte riguardo all’impalcato, con commissioni ed incarichi di verifica a posteriori profusi in giro per gli atenei di tutta Italia (sperando di riuscire a convincere che gli svariati milioni di euro di progettazione sono stati ben spesi), come se non bastasse la lezione di Michetti, qualcun’altro rincara la dose. Qualcuno che la sa lunga.
Il prof. ing. Remo Calzona è un affermato strutturista, già incaricato dall’Anas nel 1986 e dal governo nel 2002 come Presidente del comitato tecnico-scientifico per la verifica della fattibilità del Ponte sullo Stretto, oltre che essere stato componente e relatore della commissione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici sul parere di fattibilità, Presidente della Commissione per il parere di fattibilità al CIPE, e coordinatore del Comitato Scientifico presso la società Stretto di Messina. Quindi non proprio uno di passaggio, ma un insider.
Nel suo testo “La ricerca non ha fine. Il Ponte sullo stretto di Messina”, Roma (Dei), 2008, emergono critiche puntuali e documentate al progetto del Ponte, ponendo seri dubbi – come già Majowiecki e Mazzolani – sulla sua realizzabilità concreta.
Anzitutto si ribadiscono i dubbi – che abbiamo già avuto modo di approfondire – sulla scelta della campata unica da 3.300 m e sul sistema di cavi portanti di 5.300 m di lunghezza. Anche Calzona afferma, dati alla mano, che le tecnologie e i materiali oggi disponibili non sono adeguati a supportare quella soluzione progettuale, che adotta un sistema estremamente pesante, non in grado di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni funzionali, ambientali e atmosferiche che caratterizzano lo Stretto e che finisce per dover soprattutto sorreggere se stesso (si parla di un peso complessivo di 196.800 tonnellate).
Soltanto quando (e se) sarà disponibile un acciaio molto più leggero e molto più resistente di quelli attualmente in commercio, un manufatto di queste dimensioni potrà essere realizzato. Esperti di evoluzione tecnologica dei materiali da costruzione hanno stimato in un secolo e mezzo [Mazzolani, stimando l’anno 2050, era stato più ottimista… NdA] il tempo necessario per ottenere attrezzature rispondenti alle caratteristiche richieste dal progetto (L’architetto Italiano, mag/giu 2005)
Sulla base dello studio di Calzona, viene inoltre escluso decisamente l’utilizzo del ponte quale collegamento ferroviario. Alcuni problemi sarebbero, infatti, “insormontabili”, come le traslazioni laterali dovute all’azione del vento, con oscillazioni di oltre 30 metri in mezzeria di campata (periodo di 15 secondi). Ricordiamo che il traffico ferroviario viene preso in considerazione nelle basi economiche del progetto, come ragione fondante. Esso viene anzi sovrastimato e serve a giustificare un finanziamento a fondo perduto che le Ferrovie dello Stato erogano alla società Stretto di Messina. E si dimostra come, anche indipendentemente dal trasporto ferroviario, le traslazioni comporterebbero un rendimento di esercizio molto basso e problemi di effettiva utilizzazione sicura del ponte da parte degli utenti.
Lo studio di Calzona va inoltre ad interessare problematiche incredibilmente sottovalutate (e speriamo non volutamente occultate) negli elaborati progettuali: “Misteriosamente in questa rappresentazione […] sono scomparse le faglie sotto le pile”. Dai documenti ufficiali di progetto si è indotti a pensare che le pile cadano in zone non interessate da faglie. E invece: “La realtà delle sezioni, fatta nell’ambito degli studi per il Progetto di Massima, contraddice questa tesi e pone una nuova argomentazione ostativa alla realizzazione del Ponte”, peraltro già sollevata, invano, dallo stesso Calzona e dalle commissioni che ha presieduto tra gli anno ’80 e il 2008.
Non prendere in considerazione la reale situazione geomorfologica dell’area è particolarmente grave, dal momento che sono stati effettuati numerosi ed approfonditi studi anche da parte di consulenti del Ministero delle Infrastrutture, tra cui il prof. Alessandro Guerricchio.
Citando le conclusioni del rapporto del prof. Guerricchio “Aspetti geologici e di stabilità per il Ponte sullo Stretto di Messina”, Giornale di Geologia Applicata n. 3/2006:
[…] sebbene la struttura sia stata calcolata nel rispetto di tutte le prescrizioni vigenti e nell’ipotesi di sismi caratterizzati da accelerazioni al suolo particolarmente severe (fino a 0.58g), un eventuale, anzi probabile, meccanismo di instabilità che dovesse coinvolgere il versante su cui insiste la “torre” lato Calabria produrrebbe una sollecitazione di tipo impulsivo sulla struttura con serissime conseguenze sulla stabilità strutturale.
Certo, tutte queste osservazioni non giovano all’approccio ottimista della concessionaria e del Governo. A quanto pare, il problema pare essere mal posto in origine. E per questo motivo è piuttosto difficile che la soluzione proposta sia realistica e credibile. Con le parole di Calzona:
Quanto sopra non vuol significare che non si potranno fare in futuro ponti da 3.300 m di luce, ma i livelli di rischio, le incognite di realizzabilità e i costi dell’opera raggiungono oggi limiti che suggeriscono scelte di maggiore e documentata affidabilità e di minor costo …ovvero quelle che, al giorno d’oggi, rientrano nel campo delle scelte consapevoli, affidabili e documentate.
E invece no. Nonostante tutte le critiche, di livello indiscutibile e perfettamente argomentate, Il Ponte, a detta di molti, è un’opera – oltre che perfettamente realizzabile – necessaria. Necessaria per chi?
Deus ex Machina-wannabe
Ormai da mesi si attendeva la consegna del progetto definitivo da parte del General Contractor alla Stretto di Messina SpA: anche perché la stessa concessionaria, nelle parole dei suoi portavoce, spesso rimandava a tale progetto e a quello esecutivo di là da venire ulteriori approfondimenti ed eventuali migliorie che avrebbero rassicurato tutti sulla bontà delle scelte fatte da trent’anni a questa parte. E finalmente messo a tacere le voci fuori dal coro.
Tanto più che Eurolink ha preso tutte le precauzioni possibili: la cordata di Impregilo ha incaricato COWI, Buckland & Taylor Ltd. (Canada) e Sund & Bælt A/S (Danimarca), indiscussi leader mondiali nella progettazione di ponti (è firmato COWI il progetto dello Storebelt), di effettuare ulteriori perfezionamenti dell’impostazione progettuale della campata. Per ora si sa che COWI dal 2005 si è limitata ad una generica “Pre-Build Investigation” (praticamente poco o nulla…).
L’attesa, dopo mesi di richieste di rinvio della data di consegna, è terminata. Almeno per quanto riguarda il progetto definitivo:
La società Stretto di Messina ha ricevuto dal contraente generale Eurolink il progetto definitivo del ponte sullo Stretto e degli oltre 40 chilometri di raccordi stradali e ferroviari. Lo rende noto l’Anas. Si tratta di oltre 8.000 elaborati progettuali che confermano tutte le impostazioni tecniche ed i costi di costruzione del progetto preliminare redatto dalla Stretto di Messina e approvato nel 2003 dal Cipe.
Il progetto definitivo comprende inoltre le opere deliberate dai Comuni interessati alla costruzione del ponte, come il sistema di fermate ferroviarie intermedie tra Reggio e Messina. Il progetto definitivo accoglie, ai fini anche della sicurezza antisismica delle opere a terra, la nuova normativa del Testo unico delle costruzioni, intervenuta successivamente alla progettazione preliminare [aspettiamo con ansia le verifiche del ponte vero e proprio in base alla normativa… NdA].
“La puntualità con cui il progetto è stato definito [?] – ha detto il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Altero Matteoli – dimostra la chiara volontà del Governo che ha ritenuto il ponte un’opera prioritaria per il Mezzogiorno, per l’Italia e l’Europa, essendo esso un tassello del corridoio Berlino-Palermo”.
Le prossime tappe, scandite dalla legge obiettivo, prevedono l’approvazione del progetto definitivo da parte della Stretto di Messina e l’avvio dell’istruttoria da parte del ministero delle Infrastrutture che si concluderà con l’approvazione da parte del Cipe. (fonte: Repubblica, 21/12/2010)
Ovviamente, tra un proclama e l’altro dei portavoce del Governo e della società concessionaria, del progetto esecutivo ancora non c’è nessuna traccia. Ed è proprio questo il busillisi, per dirla alla Camilleri. Quando e se vedrà la luce, sarà capace il futuro progetto esecutivo di risolvere tutti i problemi, le consistenti obiezioni ed i forti dubbi di cui sopra? Davvero una progettazione esecutiva – che potrebbe condurre ad aggiornamenti, modifiche e cambi di rotta anche radicali – può rappresentare il Deus Ex Machina per la messa in vita di quest’opera colossale, orfana di un vero, unico padre (o, se vogliamo, di un’idea forte capace di sostenerla teoricamente e concretamente)? Qualcuno s’è chiesto cosa accadrebbe se, per fare un esempio, a torri completate (due giganti da 382,60 metri!) la posa dei cavi e dell’impalcato si dimostrasse – com’è probabile, secondo autorevoli studiosi – tanto problematica da dover sospendere i lavori e rimettere mano drasticamente al progetto?